Nati poco più di una decina di anni fa in America, i coding bootcamp sono oggi una realtà affermata e diffusa anche in Italia, dove si pongono come ponte diretto tra il mondo della formazione e quello del lavoro in ambito tech e IT.
Cosa è un coding bootcamp
I coding bootcamp sono percorsi di studio indirizzati a formare programmatori, attraverso un metodo di studio intensivo, rapido e specifico.
Si differenziano da qualsiasi altro percorso di formazione per 3 principali motivi:
- Durata: si portano a compimento in brevissimo tempo, generalmente dai 3 ai 6 mesi;
- Target: sono indirizzati principalmente a persone prive di qualsiasi esperienza in ambito IT;
- Metodo: si basano esclusivamente sull’apprendimento pratico della scrittura del codice.
In Italia oggi operano diversi enti che forniscono questo tipo di percorsi.
Alcuni sono nati qua, come Aulab, Boolean, Epicode, Digitazon Tech School, etc., altri sono franchising internazionali, come 4 Geeks Academy o Le Wagon.
I costi per seguire un bootcamp in Italia oscillano tra i 2 e i 5 mila euro, con punte di 10 mila euro. In America possono arrivare a costare anche 20 mila dollari. Il prezzo varia in base al prestigio dell’istituto, valutato in base alla qualità dei corsi offerti e dei docenti, ma soprattutto al tasso di placement garantito dalla rete aziendale con cui il bootcamp collabora.
Questi istituti infatti, più che scuole, vengono definiti start-up Edu Tech, perché oltre a fornire un percorso formativo agli interessati, collaborano direttamente con le aziende, fornendo loro delle figure professionali già formate sulla base delle loro esigenze.
Questo aspetto è stato al centro di alcune controversie, perché ciò che viene pubblicizzato come un percorso di job placement pensato per studenti e studentesse, in realtà è un servizio che l’ente offre. I bootcamp hanno l’interesse affinché i developer da loro formati vadano a lavorare nelle aziende con cui collaborano, perché ne trarrebbero un profitto. Ciò renderebbe meno “pure” le statistiche di placement, e giustificherebbe servizi come quello della condivisione del rischio, per cui la retta di iscrizione verrebbe restituita, o non richiesta, qualora l’aspirante developer non dovesse trovare una posizione entro un tot di tempo dal termine del percorso. Una scommessa che in qualsiasi ambito formativo sarebbe a perdere, e che dovrebbe mostrare l’estrema esigenza di queste figure professionali nel mercato. In realtà però, camufferebbe il modello di business su cui si basano queste start up, che agiscono come dei veri e propri vivai digitali per aziende, formando per loro figure operative nel campo della programmazione.
A questo punto ci vogliamo chiedere 3 cose:
- Come sono nati i coding bootcamp?
- Come funziona un coding bootcamp?
- Si può davvero diventare un programmatore in 3 o 6 mesi, partendo da 0?
Proviamo qui a rispondere.
Coding bootcamp: nascita, sviluppo e affermazione
I coding bootcamp nascono in America intorno al 2011, sembrerebbe per scommessa, quando un developer della Bay Area di San Francisco, promise al cugino di insegnarli a programmare in sole 12 settimane, riuscendoci. Soddisfatto del risultato, sistematizzò il metodo, pubblicando un annuncio su Hacker News, con cui invitava 6 persone a seguire un corso intensivo e gratuito di 8 settimane sul linguaggio di programmazione Ruby.
Il metodo di insegnamento usato era una variante dell’hackathon, giornate durante le quali un gruppo di informatici si dedica allo sviluppo di un progetto comune (web o software). Qui ci si dedicava invece alla formazione di aspiranti sviluppatori con pochissima o nessuna esperienza in ambito IT, insegnandoli a scrivere codice.
A pagare il tempo e le competenze dell’insegnante non sarebbero stati i partecipanti, ma le aziende che poi li avrebbero assunti. Quello che appariva come un gesto filantropico dunque, in realtà era un’opportunità di business, volto a rispondere a un’esigenze delle aziende della Bay Area.
Il lavoro del futuro
A partire dal 2010 infatti, con la rapida e capillare crescita dei servizi informatici, le richieste di sviluppatori web e software sono aumentate, e i canonici percorsi formativi del settore (laurea in informatica e percorsi da autodidatta) non sono stati capaci di seguire il ritmo crescente della domanda, che ha subito un ulteriore boost a seguito della pandemia da Covid-19. Secondo uno studio di Microsoft, nel 2025 serviranno oltre 90 milioni di programmatori da formare e impiegare.
Tenendo conto che per molte aziende trovare uno sviluppatore è, ancora oggi, estremamente difficile, il settore offre un tasso di placement tra i più alti dell’industria digitale.
La scelta del termine “bootcamp” non appare dunque casuale, perché deriva dal gergo militare, dove indica un percorso di addestramento per reclute. La metafora bellica descrive un’emergenza per il mondo del lavoro in ambito tech e IT, che necessita di (tante) persone capaci di scrivere codice. Serve dunque un metodo di formazione efficiente, pratico e accessibile a chiunque parta da 0, capace di generare un elevato numero di programmatori da impiegare nell’immediato. In breve: i coding bootcamp creano forza lavoro digitale.
In pochi anni si sono diffusi in tutta America e nel mondo, arrivando a formare oltre 20 mila developer l’anno, con un giro d’affari che supera i 60 milioni di dollari, tant’è che già nel 2016, in America, si parlava di una bolla speculativa fuori controllo, che coinvolse pure il presidente Obama nel tentativo di normarla e tenerla sotto controllo.
Start up e scuole che propongono coding bootcamp infatti, si promuovono garantendo l’accesso al mondo del lavoro, con formule riassumibili nel classico: soddisfatti o rimborsati (se non trovi lavoro, ti rimborsiamo). Le più audaci, promettono lavori stabili in grandi multinazionali, con guadagni oltre la media e possibilità di lavorare come un nomade digitale.
In un mercato del lavoro come quello italiano, dove la disoccupazione giovanile è al 22% e i neet al 34% (dati a dicembre 2022), e la distanza tra università e mondo del lavoro una criticità evidente, una pubblicità che fa leva solo sulla garanzia occupazionale, appare come l’El Dorado o la chiave di volta della nostra vita.
Ma per quanto ciò sia potenzialmente possibile, tra l’intraprendere questo percorso e acquisire le competenze per farne una professione di successo, bastano 6 mesi di formazione?
Per capirlo, vediamo prima di tutto come funziona un coding bootcamp.
Come funziona un coding bootcamp
I coding bootcamp si concentrano principalmente sulla programmazione web, e non software. Questo, come sottolineato anche nel blog di Aulab, permette di saltare tutta la parte teorica, legata agli algoritmi e alla logica informatica, per concentrarsi direttamente sulla parte operativa del lavoro.
I coding bootcamp insegnano perciò a sviluppare in 2 ambiti:
- Front-end: la parte visibile di un sito web (il palco), che si sviluppa con strumenti html, css, javascript, angular, react, etc.;
- Back-end: la parte amministrativa di un sito web (il dietro le quinte), che si sviluppa con strumenti java, php, etc.
I percorsi di studio si svolgono principalmente da remoto, e durano dai 3 ai 6 mesi, in modalità:
- Full-time: con lezioni 5 giorni a settimana, mattina e pomeriggio, indirizzati a chi non lavora;
- Part-time: con lezioni 2 giorni a settimana in orario serale, indirizzati a lavoratori.
Le lezioni seguono più o meno lo stesso format: gli iscritti vengono coinvolti nello sviluppo di un progetto collettivo, applicando quanto appreso durante la fase teorica di studio. L’obiettivo è quello di far lavorare gli aspiranti sviluppatori sin da subito, operando su un caso studio che possono trovare nel mondo del lavoro, supportati dai docenti della scuola.
Il progetto fungerà poi da portfolio durante la fase di placement, permettendo quindi alle aziende di valutare il candidato non sulla base di una certificazione, ma sulla base di una competenza pratica acquisita nei 3 o 6 mesi di studio.
Si può davvero diventare sviluppatore in 6 mesi?
La risposta è, come sempre, dipende.
Ma ci possiamo fare un’altra domanda: è possibile che una figura professionale altamente specializzata e così ricercata nel mercato del lavoro, si possa formare, partendo da 0, in soli 3 o 6 mesi di studio? Tecnicamente no.
Come ben spiegato dal canale Youtube TomorrowDevs, in 6 mesi si possono al più imparare le basi di un mestiere complesso, stratificato, basato sulla conoscenza di linguaggi in continuo sviluppo e aggiornamento, che richiede una serie di soft skill non alla portata di tutti, come capacità di ragionamento logico, analitico e deduttivo molto spiccate.
I tassi di abbandono
Non è un caso dunque, come sostiene il programmatore Richard Bovell, che i tassi di abbandono dei percorsi informatici siano più elevati di quanto ci si aspetti, e in genere avvengono perché gli studenti scoprono che la complessità del processo di programmazione non è una banalità. Ovvero: programmare non è un mestiere che tutti riescono a fare.
Secondo un rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca del 2018 realizzato da ANVUR, solo il 22% degli studenti iscritti a un corso di laura triennale in ingegneria informatica riesce a conseguire il titolo nei tempi stabiliti. Il tasso sale al 56% a 6 anni dall’iscrizione, con un tasso di abbandono del 27%.
I coding bootcamp non forniscono dati sul tasso di abbandono degli studenti. Ma condensare in 3 mesi quello che all’università si studia diversi anni, anche se scremato di tutta la teoria, richiede ritmi di apprendimento elevati.
Conoscere i dati di “abbandono” dei coding bootcamp potrebbe mettere in prospettiva anche quelli sul placement. Ad esempio: se in una classe di 10 alunni 4 abbandonano e 5 vengono assunti al termine del percorso, il tasso di placement è oltre l’80% ma solo se si tiene unicamente conto dei 6 che hanno completato gli studi, altrimenti scenderebbe al 50% (con un tasso di abbandono del 40%).
I manovali del codice
Restando sui 6 che hanno concluso il percorso, che tipo di lavoro andranno a fare?
Sempre secondo il canale Youtube TomorrowDevs, con la conoscenza di linguaggi css, html e java, più uno o due linguaggi sul back end o front end, si può essere dei “manovali” del codice, cioè figure jolly da affiancare a uno sviluppatore senior, per supportarlo nelle fasi di scrittura più basiche e ripetitive, o svolgere lavori sotto delega.
Queste competenze permettono di essere assunti come junior dev, con contratti di apprendistato o tirocinio. Ovviamente questo non è un male, perché le possibilità di assunzione e carriera restano più alte rispetto ad altri settori, ma sono distanti dalla promesse fate dal marketing più audace.
Inoltre, un eccesso di figure “junior” rischia di essere controproducente. Nel mercato americano, già da diversi anni si fa notare come l’aumento di questi percorsi abbia ridotto le possibilità di assunzione e dunque di carriera per chi proviene da un bootcamp, perché la concorrenza, a livello junior, si è fatta di anno in anno più ampia, perciò le aziende si orientano verso figure maggiormente qualificate, e tendono a essere diffidenti o addirittura a snobbare chi sceglie un bootcamp, vedendolo come un tentativo di “accorciare” un percorso di preparazione professionale molto lungo.
Anche le testimonianze riportate dagli HR intervistati da TomorrowDevs sembrano confermare questi timori, evidenziando una carenza nel “ragionare” come un programmatore, più che nel saper “scrivere” codice. Sembra una differenza da poco, ma è la stessa che intercorre tra il conoscere una lingua, e il saper scrivere un romanzo in quella lingua.
Una conclusione
La programmazione è una professione altamente qualificata e potenzialmente accessibile a chiunque senza un percorso di formazione obbligatorio e certificato, ma questo non significa che basti poco per apprenderla.
Naturalmente esistono tante testimonianze positive e storie di successo legate a chi ha scelto un coding bootcamp (su Youtube Italia se ne trovano tante), ma questo non significa che siano la strada più semplice e veloce per trovare un lavoro e arricchirsi.
I coding bootcamp, abbiamo visto, nascono per rispondere a una precisa domanda di mercato, che nasce dalla congiunzione di due situazioni potenzialmente critiche:
- La carenza di figure altamente specializzate nel campo della programmazione, a causa delle repentina crescita del settore negli ultimi 10 anni;
- Una crisi istituzionale che richiede nuovi percorsi di inserimento in un mondo del lavoro sempre più smart e digitale.
Nel rispondere a questi due bisogni, creano forza lavoro digitale, necessaria e fondamentale per la crescita dell’industria IT. Il problema non si pone dunque in quello che è il loro core business, ma nel modo in cui questo viene pubblicizzato.
Promuovere questi percorsi come canali rapidi per l’ingresso nel mondo del lavoro, facendo leva solo sulle possibilità di impiego e guadagno, rischia di essere fuorviante per numerosi motivi:
- Si svilisce una professione, quella del programmatore, facendo passare l’idea che per svolgerla basti a chiunque seguire un corso di pochi mesi.
- Si svilisce un percorso di studio, quello universitario, rafforzando l’idea che l’università non certifichi o qualifichi le competenze di una persona.
- Si svilisce una visione di vita, raccontando la carriera digitale come l’unica via percorribile per sviluppare una carriera professionale garantita e di successo.
Un coding bootcamp può essere un ottimo strumento per avviare una carriera nella programmazione, se si resta consapevoli che a termine del percorso non si è dei full-stack developer pronti a lavorare in autonomia, e che dunque le possibilità di carriera non sono garantite, ma sono relative e commisurate alla capacità di mettere in pratica quanto acquisito da parte dello studente, e dalla sua volontà di approfondire la materia anche al di fuori del corso.
Dire a una persona disoccupata, o che ha appena terminato la scuola dell’obbligo, che il bootcamp è un percorso semplice e breve per cambiare vita o avviare una carriera assicurata in un settore in espansione, rischia di essere pubblicità ingannevole.